BURNHAM E BADEN-POWELL
AVVENTURE DURANTE LA CAMPAGNA DEI MATABELE

Nelle appassionanti ricognizioni effettuate durante la campagna dei Matabele B.-P. ebbe in varie occasioni come compagno l’esploratore americano, maggiore Frederick Russell Burnham (allora impiegato dalla British South Africa Company, ma in precedenza esploratore nell’esercito americano durante le guerre contro gli indiani). Da Burnham B.-P. - con la sua caratteristica capacità di assimilare il meglio dalle persone con cui veniva a contatto - prese vari dettagli che poi si ritroveranno nello scautismo. Fu allora che egli cominciò ad usare un cappello a larga tesa, più tardi detto “alla boera “, ma, di fatto, usato dai cow-boy americani; e di derivazione cow-boy è anche il fazzoletto da collo (che anch’esso compare per la prima volta nella campagna dei Matabele), che ha per scopo di proteggere collo e spalle dalle scottature.
Burnham insegnò anche a B.-P. i metodi degli Indiani d’America per trovare l’acqua, per tendere trappole agli animali per osservare la selvaggina, per viaggiare in territori selvaggi senza l’aiuto di carte e di bussola.
Burnham raccontò le sue avventure nel Matabeleland in un suo libro, Scouting on Two Continents (Londra, 1926). Le pagine che pubblichiamo qui sotto sono invece tolte da un altro libro, scritto dopo la morte di B.-P. (Taking Chances, 1944). Sono pagine poco note (non le ha utilizzate Jeal per la sua pur docu¬mentatissima biografia di B.-P.), eppure esse mi paiono notevoli, oltreché per il loro stile personale e a tratti divertente, anche per il contributo che esse portano per la ricostruzione della genesi dello scautismo nella mente di B.-P.
Siamo, naturalmente, nel giugno 1896: il campo di Brownsea è lontano più di dieci anni, il Jamboree di Olympia quasi un quarto di secolo. Il pensiero di B.-P. è in piena fase “Imperiale“. Eppure l’immagine di quest’uomo impegnato in ricognizioni pericolosissime, che beve il suo ultimo caffè non sapendo se l’indomani sarà ancora vivo, ma che, accanto al suo fuoco di bivacco, ha il coraggio e la lungimiranza di guardare avanti, ha qualcosa di profondamente accattivante. Si comprende perché quel piccolo fuoco si è sparso, di lì a pochi anni nel mondo intero.

MARIO SICA


Burnham nel 1902
Baden-Powell nell'uniforme della Polizia a cavallo sudafricana
 

 

Il nostro comandante il generale Carrington, mi mandò con Baden-Powell in una difficile missione esplorativa per ottenere informazioni su ciò che precisamente facessero gli impi degli Zulù. Erano i tempi dei carri coperti dei pionieri, non c’erano aerei, radio o macchine fotografiche, e neppure un telefono, anche se c’era una singola linea telegrafica che era riuscita a raggiungere i bianchi che tenevano Bulawayo. Il mezzo di informazione più rapido era il cavallo, specie se l’animale era sano. Ogni oncia trasportata era importante, perciò scartammo cappotti, impermeabili e coperte. Poiché le nostre selle erano assai consumate, aggiungemmo una piccola coperta da sella per proteggere i nostri cavalli dalle vesciche. Durante quella missione esplorativa Baden-Powell ed io fummo spesso in posizioni fortificate nemiche, ma coprendo accuratamente le nostre tracce, particolarmente nell’attraversare sentieri, e servendoci di estrema prudenza e di molti stratagemmi, ci procurammo le informazioni di cui le nostre truppe avevano tanto bisogno. Il nostro più grande problema era allora di trasmettere le informazioni al generale.

I nostri cavalli non avevano avuto cibo da due giorni ed erano assai deboli. Anche noi avevamo digiunato per due giorni, ma non eravamo sfiniti. Ciascuno di noi aveva messo da parte circa mezza libbra di carne secca e un’oncia o due di caffè, perciò sapevamo di poter andare avanti per un po’ di tempo, ma non a piedi, perché una banda ostile che si imbattesse nelle nostre tracce avrebbe fatto presto a seguirci e circondarci. Non era invece probabile che i Matabele seguissero orme di cavalli, in quanto ritenevano che un cavallo potesse galoppare per un periodo Indefinito e andare molto lontano. Se fossero stati abili nel leggere le tracce come gli Indiani d’America, in poche ore avrebbero raggiunto le nostre chiaramente sfiancate cavalcature. Ma un Matabele è uno che si sposta a piedi, mentre un Indiano d’America è un cavaliere che può immediatamente capire le condizioni di un cavallo dall’aspetto delle sue tracce.

Quella notte B.-P. e io tenemmo un consiglio di guerra che venne tacitamente esteso ai nostri cavalli, giacché sapevamo che erano sempre pieni di buon senso equino. Nella misura in cui potemmo interpretare la loro lingua, ecco il loro contributo: “Vi abbiamo portato lontano, e in certi momenti abbiamo galoppato ventre a terra per salvarvi, ma non vediamo perché dovremmo esser condotti oltre in questa sciocca esplorazione in un territorio pericoloso. Non abbiamo mai mancato di darvi il meglio di noi stessi, ma ora siamo quasi alla fine. Ad esser davvero giusti, siccome noi abbiamo portato voi in lunghi viaggi, toccherebbe ora a voi a portare noi. Ma poiché la vera giustizia un cavallo non potrà mai aspettarsela, possiamo solo nitrire, cioè nutrire, fiducia che molto presto vi sia cibo per noi, o lance per voi “.

Questo sottile avvertimento aguzzò il nostro ingegno. All’alba facemmo un compromesso, camminando coi nostri cavalli e facendoli riposare spesso. Ci ricordammo che a non molte miglia di distanza c’era un kraal, o villaggio, dei Matabele bruciato, dove avevamo combattuto solo due settimane prima. Se fosse stato rioccupato dai Matabele, ciò avrebbe voluto dire che avremmo dovuto combattere: cosa pericolosa, nel nostro stato di debolezza. Perciò ci avvicinammo al. villaggio con estrema prudenza in quanto, per strano che possa sembrare, è durante il giorno che molti esploratori vengono uccisi. Quando cadono le ombre e se uno ha “occhio di notte “ e sa come muoversi, l’impossibile diviene possibile. B.-P. mi copri col fucile e tenne i cavalli in una macchia mentre io strisciai avvicinandomi al villaggio, dove qualche guerriero Matabele poteva benissimo aver trovato rifugio dopo aver coperto le proprie tracce. In un piccolo conga vicino al villaggio trovai uno scudo di pelle di bue abbandonato nell’ultimo combattimento. Allora d’un tratto battei qualche colpo forte nello scudo - il segnale di guerra dei Matabele -a solo un corvo solitario si levò in volo dal centro del villaggio. Poiché nessun essere umano poteva sfuggire al vigile occhio dell’uccello, capimmo che il posto almeno per il momento era nostro.

I Matabele conservano il loro grano sotterrandolo in grandi vasi di terracotta. A volte costruiscono grandi pozzi a guisa di cisterne, che contengono fino a tre quintali di grano. Le cisterne sono chiuse con un masso piatto e un impasto di fango e di cenere. Il grano fermenta come i foraggi nei silos dell’Ovest americano ed acquista un odore acre, ma non disgustoso come quello dei crauti o di certi formaggi. Per fortuna il grano mantiene tutte le sue qualità nutritive e sia gli uomini che le bestie arrivano a mangiarlo. Chi sa se i nostri dottori di oggi non scopriranno in esso qualche nuova vitamina e non ci obbligheranno tutti a cibarcene?

Se i Matabele avevano abbandonato il villaggio in fretta non avrebbero avuto il tempo di portar via il prezioso grano che per noi, compresi i nostri cavalli, sarebbe stato molto più prezioso di qualsiasi “grana “. Sapevamo come localizzare, con sondaggi, i vasi nascosti, e ben presto ne trovammo uno piccolo. Dalle nostre selle prendemmo le nostre preziose musette, del tipo britannico tramandatoci dal famoso Caporeparto Genghis Khan. In ciascuna di esse riuscimmo a mettere circa dieci chili del prezioso, seppur puzzolente, grano. Quindi, tenendo i cavalli per te redini e il morso, li lasciammo mangiucchiare qualche erba dolce per circa un’ora, un pasto che servì a smussare la loro fame e ci consentì quindi di dare a ciascuno di loro una libbra di grano dei Matabele senza che essi cadessero al suolo. Con i nostri coltellacci tagliammo una buona dose d’erba per ciascun cavallo e la legammo in fasci alle nostre selle.

Avendo così nutrito e fatto riposare i cavalli, iniziammo la nostra lunga scalata verso l’altipiano. Era a dir poco un cammino difficile, quasi del tutto allo scoperto. Per tutto il pomeriggio potevamo esser visti per miglia e miglia, e sapevamo bene che in ogni momento un impi poteva tornare al villaggio bruciato per ricostruirlo o per prendere il prezioso grano seppellito nei vasi; ma solo se avessimo preso quel duro e ripido sentiero potevamo intravedere una probabilità di successo. Il sole sembrava essersi fermato come una volta aveva fatto per fare un favore a Giosuè, ma noi, dal canto nostro, pregavamo ardentemente che venisse la notte. Proprio prima che facesse buio scoprimmo, inaspettatamente, un profondo conga. Lanciammo un cappio per cancellare le nostre tracce e ci accampammo in fondo al conga. Subito le nostre speranze presero a tingersi di rosa. Baden-Powell era esperto nel cacciare e nel trovare legna secca e che non lasciava quasi alcun fumo, come pure nel nascondere un fuoco anche di discrete dimensioni. Avendo fatto bere i cavalli alla piccola pozza proprio sotto al campo, diedi loro una dose del grano fermentato, aggiungendo così una fragranza ulteriore ai nostri cappelli, che furono utilizzati in luogo delle musette.

Dopo un’approfondita discussione, B.-P. ed lo decidemmo di far festa ed usare quanto ci restava del caffè, mangiare il rimanente della nostra preziosa carne secca e rimpinzarci con un po’ del grano matabele bollito. Perché no? Non c’era un serio pericolo fino all’alba. Inoltre, chi poteva sapere, l’indomani potevamo non avere la possibilità di bere quell’ultima tazza di caffè. Quanto al cibo, immaginate solo il nemico mentre gustava la nostra squisita carne secca, che era di antilope, la migliore carne dell’Africa, donata a B.-P. dal famoso cacciatore boero Van Royen, che in quel momento stava ancora resistendo ai Matabele, assediato nel suo campo al passo Mangwe.

La nostra festa riuscì benissimo. Ci sentivamo al massimo della forma e fortificati per l’indomani. Per altre dieci ore l’oscuro mantello della notte, santa patrona e protettrice degli esploratori, ci riparava da impi nemici. Sdraiati accanto ai tizzoni del nostro piccolo fuoco, presto esaurimmo gli argomenti di cui di solito discutono i giovani soldati. Portando la conversazione su alcune linee essenziali di storia della guerra presso i popoli primitivi, B.-P. mi fece raccontare vari fatti di scienza dei boschi che avevo appreso nella mia infanzia, specialmente della vita tra gli Indiani d’America. Raffrontando le nostre motivazioni, scoprimmo che ciascuno di noi riteneva che l’altro com¬battesse perché amava il combattimento; ma al calore di quel piccolo fuoco di bivacco confessammo che in realtà combattevamo solo per qualche più alto obiettivo al disopra di noi, qualche ideale che portavamo nel cuore e per il quale eravamo pronti, se era necessario, a morire.

Quindi tirammo fuori la brocca degli imponderabili e versammo fuori le domande senza risposta: visto che la guerra pervade tutta la natura e rimonta ai primordi dell’umanità, è destino che continui per sempre? E i suoi orrori e crimini sono davvero compensati dai riconosciuti vantaggi? Il contributo di B.-P. a questa fonte profonda di teorizzazione senza fine fu di tracciare una definizione dell’uomo come un giardiniere: un conservatore spietato che, dopo aver piantato il suo seme prezioso, lo protegge con cura premurosa. A nessuna erbaccia estranea egli consentirà di avvicinarsi al seme. A niente al mondo sarà permesso di impedire, minacciare o distruggere la crescita delle sue piante preziose. Con il medesimo fervore le nazioni devono difendere e proteggere i loro ideali. “Che succede “, osservai io con le mie limitate conoscenze di giardinaggio, “se le piante del giardiniere si rivelano essere lappole? “. “Ah “, fece B.-P., “questa è la prova suprema. Se gli ideali di una nazione si sviluppano in modo sbagliato essi periscono nel caos e in un bagno di sangue. Tutto dipende da quale seme si semina in giardino. Dobbiamo piantare il seme giusto perché valga la pena difenderlo. Bumham, queste idee folli hanno fatto avanti e indietro continuamente nella mia mente, persino nei miei giorni della caccia al cinghiale in India. Forse non sono che sogni, eppure credo che anche un soldato possa fare qualcosa che valga la pena“. E per l’ora che segui B.-P. espose per filo e per segno le sue idee concrete rivolte al bene. Egli era convinto che l’impero britannico, ad onta di tutti i suoi difetti, avesse una grande missione da compiere. “Il tempo è breve“, disse, “perché com’è vero che sediamo attorno a questo fuoco, la conflagrazione mondiale che si prepara renderà tutte le altre guerre simili a una debole fiammella”.
In India B.-P. aveva contribuito a spingere a nord i confini dell’impero britannico fino a far loro quasi toccare le grinfie del minaccioso orso russo. In Africa aveva contribuito a svuotare per sempre la grande conca di sangue umano che da tempo immemorabile i re Ashanti avevano mantenuta piena nei boschetti sacri di Kumasi. Questa volta egli stava cercando di impedire la vittoria dei Matabele il cui grande re aveva ordinato alle migliaia di suoi guerrieri: “Non lasciate che il sangue si dissecchi mai sulle vostre lance “.

B.-P. osservò che sotto la bandiera britannica la schiavitù era stata abolita, la vita era sicura, la popolazione era cresciuta e prosperava. “Ma naturalmente “, aggiunse, “nessun popolo conquistato ama i suoi governanti, anche se in situazioni di emergenza coloro che sono entrati nelle file dell’esercito britannico raramente si sono rivoltati contro di esso. Ma forse questo è un vecchio e vanaglorioso discorso inglese. La verità è che tutte le grandi nazioni, alcune vecchie di più di mille anni, possono, ancorché macchiate da errori e da crimini, rivendicare determinate virtù. Se si mette pienamente in opera la moderna intelligenza, si può giungere a un mondo assai più vivibile per tutti. E’ facile a dirsi, ma molto difficile da realizzare“.

B.-P. dichiarò poi: “L’Impero britannico corre un pericolo più immediato a causa dei suoi nemici interni che non di quelli esterni, e dobbiamo affrettarci a mettere in ordine la nostra casa, perché tutte le guerre precedenti non saranno comparabili con quella che sta per venire. Quando vedo alcune delle reclute del nostro esercito, in gran parte provenienti dai campi sterili di calce e mattoni, sento un brivido che mi corre dentro. Il solo raggio di speranza è che queste reclute sembrano conservare una scintilla innata di coraggio. E tuttavia il coraggio da solo non può bastare, nella dura battaglia che ci aspetta. Robin Hood avrebbe avuto scarse possibilità di reclutare i suoi prodi arcieri nelle nostre grandi città. Né i vostri capi indiani poterebbero scegliere i loro guerrieri da giovani come quelli che vengono su nelle vostre città. Un fatto significativo nella storia militare americana è che delle bande erranti di guerrieri indiani, spesso debolmente armati, hanno respinto a più riprese grandi ondate di uomini bianchi armati nella loro marcia verso ovest. Ci sono voluti più di duecento anni prima che gli ultimi di loro si arrendessero sulla vostra costa del Pacifico “. Sapevo che tutto questo era vero.

Baden-Powell continuò: “I nostri libri sono pieni di ovvietà economiche e di slogan militari. Resta il fatto che il ceppo originario da cui è nato l’impero britannico è stato un popolo rotto ai disagi e pieno di fiducia in sé stesso, che viveva vicino alla terra. Quella vita di disagi fu quella che gli consentì di sconfiggere i suoi nemici e di mai esitare a far fronte ai propri errori, anche ai crimini nazionali, e a correggerli. Ora una nuova epoca invia in massa nelle città il nostro libero popolo delle campagne. Le stesse nostre misure toraciche si vanno restringendo. Stiamo tentando l’impresa impossibile di far sì che una piramide stia in equilibrio sulla sua punta. Nella mia specialità di servizio, la cavalleria, posso vedere, anno dopo anno, ciò che sta succedendo. La cavalleria dovrebbe costituire la vista acuta dell’esercito britannico. Per essa abbiamo bisogno dell’efficienza della Polizia a cavallo del Canada, della resistenza dei vostri esploratori indiani, della rapidità dei Ranger del Texas, dell’astuzia delle tribù delle montagne dell’India.
Ho una fiducia totale che ciò possa essere conseguito dai più capaci tra i nostri giovani ufficiali di cavalleria, ma per avere del buon materiale dobbiamo avere nuovi giovani su cui contare. I nostri giovani debbono esser tirati fuori dai vicoli e dalle strade per esser portati nei campi sotto le stelle, cosicché i loro occhi siano addestrati all’oscurità e i loro piedi a muoversi leggermente senza affaticarsi. I giovani e i forti di oggi saranno i governanti di domani. Dobbiamo sbrigarci a conservare le loro migliori virtù, perché le nazioni prive di coraggio e di disciplina hanno vita assai breve. Al tempo stesso dobbiamo sempre ricordare e rispettare il codice dei cavalieri che, per generazioni e generazioni, dettero all’Europa il suo solo raggio di speranza durante i secoli bui. Grazie a quel codice, un solo cavaliere dal cuore pieno di misericordia e di amor di Dio portava fiducia e conforto ai deboli e agli oppressi, slanciandosi a cavallo contro i malfattori che tremavano dinanzi alla lancia da lui impugnata“.

In quell’ora lontana e profetica, la preoccupazione di B.-P. sembrava concentrarsi sul morale dell’esercito e, in particolare, sullo sviluppo delle capacità ricognitive della cavalleria. Il suo primo manuale riguardava appunto una serie di precisi “Suggerimenti per l’esplorazione“ e fu imitato per uso militare da sette grandi Paesi. Ma durante quella notte che passammo nel Conga sull’altipiano africano, i suoi pensieri si allargarono a comprendere i giovani del mondo intero.

Vicino a noi si stagliavano i nostri cavalli, come scolpiti nella pietra e profondamente addormentati, come usano fare i cavalli. Le nostre menti sembravano troppo eccitate per il sonno, ma chiudemmo la nostra veglia con un momento di scherzo giovanile. B.-P. lo cominciò con una poesiola nota ad ogni ufficiale di cavalleria (sulla perdita di un chiodo che causò la perdita della battaglia), che si trasformò poi in una creazione originale cui ciascuno di noi a turno provò a dare un assonnato contributo, finché scivolammo in una completa insensibilità.

Molti anni dopo, quando B.-P. aveva pienamente sviluppato tutto il suo progetto dello scautismo, io riuscivo ancora a riconoscervi le idee iniziali espresse quella notte accanto al nostro fuoco di bivacco.
Per più di una generazione quelle idee hanno operato con successo per milioni di giova¬ni in molti Paesi. Il Movimento scout significa assai di più che dormire sul terreno freddo sotto le stelle o strofinare insieme due bastoncini per fare il fuoco, come qualche spirito irridente cerca di farci credere. In questo mondo tuttora pieno di problemi significa tener viva nel cuore degli uomini una fiamma che non deve mai morire.

Frederick R. Burnham, Taking Chances, 1944
(introduzione, traduzione e note di Mario Sica)
da Esperienze e Progetti nr 128


 

(1) La mia vita come un’avventura, pp. 343-388
(2) Sono i reparti di truppe (reggimenti o battaglioni) dei Matabele (NdT).
(3) Avvallamento del terreno nel veld sudafricano (NdT).
(4) Primo manuale scritto da B.-P., deI 1884, si intitolava in realtà Reconnaissance and Scouting (NdT).

 





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